IL RITORNO AL FUTURO DELLA CULT-GENERATION
5° RAPPORTO DI RICERCA (2017)
Tra i diversi film che hanno segnato la generazione nata negli anni Settanta, non vi è dubbio che un posto di primo piano spetti alla fortunata trilogia di Ritorno al futuro, frutto di un’idea visionaria del produttore e sceneggiatore Bob Gale condivisa con il regista Robert Zemeckis, e associata nel ricordo collettivo all’immagine di Christopher Lloyd e Michael J. Fox, nei diversi ruoli del dottor “Doc” e del giovane Marty McFly, intenti a compiere un avvincente viaggio nel tempo a bordo della celebre DeLorean.
“Ritorno al futuro”: un’espressione che letteralmente costituisce un contrasto logico, perché fonde l’idea del ritorno, ovvero del passato, con quella del futuro. Un ossimoro, dunque, che tuttavia sintetizza alla perfezione le tensioni che caratterizzano i giovani del 5° Rapporto: una generazione “futuristicamente tradizionale”, che si aggrappa ai valori della cultura di ieri, reinterpretandoli con un occhio rivolto al domani. Una cult-generation, dunque, per tratteggiare la quale occorre compiere proprio un viaggio nel tempo, in cui quanto emerso nelle precedenti edizioni della ricerca (dunque, il passato) diventa chiave di lettura per comprendere chi sono i giovani oggi (ovvero il presente) e cosa essi si aspettano per il domani (dunque, il loro futuro).
Orientiamo quindi le lancette del tempo al 2013, quando il 1° Rapporto “Generazione Proteo” ci aveva consegnato l’immagine di una generazione inafferrabile, sfuggevole, multiforme, rapida nel cambiamento. Una generazione il cui essere “proteiforme” si integra oggi perfettamente in una società come quella attuale, sempre più fondata sulla intangibilità e dove il tempo scorre al ritmo del presente continuo.
I giovani del 5° Rapporto di ricerca reagiscono a questa fluidità ancorandosi alla cultura, dalle sue forme più tradizionali alle sue espressioni più nuove e originali quali la street art (80,3%), i videoclip musicali (53,8%), finanche il cake design (52,9%), per dare tangibilità alla loro esperienza quotidiana e nel contempo per coniugare al futuro quel presente continuo. Ecco allora che la cultura si esprime attraverso un’immagine da tatuarsi sulla propria pelle (66,1%), e non solo per moda o per estetica, quanto piuttosto perché un tatuaggio contribuisce a stampare nella memoria (53,3%), a rendere indelebile e tangibile il ricordo di qualcosa e di qualcuno. Una cultura antica e moderna allo stesso tempo, che prende forma in quel voto che i giovani considerano sempre come la più tangibile espressione della partecipazione politica. Una cultura che essi associano al fascino indiscusso e privilegiato del libro stampato piuttosto che all’immaterialità dell’e-book. Una cultura grazie alla quale l’innovazione è tale non se è fine a se stessa, ma se l’anima ludica del progresso si trasforma in benessere, ossia in quel qualcosa che può contribuire a migliorare tangibilmente la vita delle persone.
L’anno successivo, il 2014, avevamo definito la generazione emersa dal 2° Rapporto di ricerca come di “solisti fuoriclasse”. Un gioco di parole utile a sintetizzare una generazione tanto di virtuosi e brillanti talenti, quanto di monadi isolate che faticano a trovare armonia nell’orchestra rappresentata dalla propria classe, dal proprio gruppo, dal proprio Paese.
Per la cult-generation essere “fuori-classe” assume il medesimo duplice significato. Da una parte si è strutturalmente portati a identificare modelli fuori dall’esperienza di gruppo: per esempio in politica, dove i giovani associano la leadership all’immagine dell’uomo solo al comando, inteso come chi sa ben comunicare (31,7%) e chi ispira fiducia (26,6%), piuttosto che alla capacità di sapersi scegliere dei validi collaboratori (10,4%). Oppure sui social dove circa 1 giovane su 5 (17,2%), pur percependo i rischi di dipendenza (33,9%) e isolamento (29,1%), finisce sovente per estraniarsi dalla vita reale. Infine, pensiamo a quelle derive estremamente pericolose note con il termine di “cyberbullismo”, di cui circa 2 intervistati su 10 hanno dichiarato di essere stati vittime. Vittime che preferiscono confidarsi con gli amici (26,8%) piuttosto che con genitori (13,9%) o insegnanti (5,7%), poiché non li considerano sufficientemente alfabetizzati nei confronti della Rete e dei suoi meccanismi.
Dall’altra parte, essere “fuoriclasse” diventa anche sinonimo di quel talento che consente ai giovani di non essere prigionieri della quotidianità. Una straordinarietà che li spinge a mettersi costantemente in gioco, nel lavoro (per ottenere il quale sono disposti a fare sacrifici) come nelle diverse sfide che scandiscono il loro tempo, a cominciare dal terrorismo, alla logica del quale essi non intendono piegarsi.
Nel 2015, il 3° Rapporto ci aveva restituito invece l’immagine di una generazione di atleti e corridori, quasi inconsapevoli di una competizione agonistica quotidiana, caratterizzata da molteplici e diversi ostacoli rappresentati dalle sovrastrutture sociali che impediscono la realizzazione del loro essere “fuoriclasse”. Queste barriere, quest’anno più che mai, prendono forma nei paradossi e nelle contraddizioni di una cult-generation per cui vivere all’italiana è, per definizione, sinonimo di “sapersi adattare”. Un approccio che ha contribuito a creare quella cultura per cui gli stereotipi sull’Italia sono spesso ancorati alla vecchia triade “Italia = pizza, mafia e mandolino”. E così finisce che i giovani associno la promozione del nostro Paese all’estero in primis alla pizza e a un piatto di pasta (41,1%) oppure al Colosseo (32,8%), ma non a un’aula universitaria (1,2%), intesa come metafora di un Paese che valorizza la formazione e la ricerca.
Una generazione di “nativi europei” che percepisce l’Europa più come processo di integrazione sociale e culturale (38,7%) che come condivisione di una stessa visione economica e politica (22,8%). Una generazione che teme la discriminazione, ma che paradossalmente la riconduce più all’orientamento sessuale che alle tradizionali questioni di etnia. Una generazione affascinata dalle molteplici sfumature del concetto di “cultura”, e che anche per questo vorrebbe una scuola in cui parlare del rapporto tra etica e medicina (12,1%), di musica (12,4%), di cinema (10%) ma anche di politica (21,1%) e sessualità (21,4%). Una generazione, infine, che percepisce il pericolo del terrorismo, verso cui prova preoccupazione e rabbia, e che reagisce invocando, in quasi un caso su tre (26,2%), la pena di morte per chi commette tali stragi.
Appena un anno fa, infine, il 4° Rapporto di ricerca ci aveva raccontato di una generazione di talentuosi acrobati in precario equilibrio sopra una follia cui, a un anno di distanza, i giovani rispondono con un “eccesso ai divieti”, che prende forma per esempio nel pub crawl (ossia bere alcol fino a perdere il controllo, 46,7%), in forme incredibilmente distorte di assunzione dell’alcol come fosse collirio (il cosiddetto eye-balling, 10,4%), nella drunkoressia (ossia bere a digiuno per massimizzare gli effetti dell’alcol, 24,2%).
Una cult-generation in equilibrio su un’idea di cultura sempre meno singolare e sempre più plurale, al cui interno rientrano tanto i romanzi (22,8%) e le canzoni (16,4%) che essi sognano di scrivere quanto le nuove forme di “arte” quali la street art (80,3%), i tatuaggi (66,1%) e i video clip musicali (53,8%). Una cult-generation per cui l’antidoto alla follia è rappresentato anche dalla cultura del rispetto e della legalità. Un rispetto che i giovani si aspettano soprattutto dalla politica, che ha successo se rispetta gli impegni presi in campagna elettorale e se è trasparente. Una educazione alla legalità che costituisce il pilastro su cui costruire una “società giusta”.
Inafferrabili, solisti fuoriclasse, road runner, talentuosi acrobati: i giovani del 5° Rapporto sono tutte queste cose, ma non solo. Prima di tutto, infatti, essi sono i protagonisti di quella cult-generation per cui “cultura” è nel contempo sinonimo di tradizione, conoscenza e curiosità. La tradizione rimanda infatti a quella cultura del passato ai cui libri essi sono ancora profondamente legati. La conoscenza, vissuta come antidoto all’incertezza di un presente inteso come momento isolato che manca del suo prima e del suo dopo. Infine, la curiosità: quella stessa curiosità che spinge il giovane Marty McFly a salire sulla DeLorean per intraprendere il suo avvincente “ritorno al futuro”. Un viaggio che, ci auguriamo, ciascun giovane non dovrebbe mai smarrire la voglia di intraprendere.